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dali con un po' di tacco, e mi avviai lungo il sentiero alla volta della ferma-
ta dell'autobus. La strada passava davanti alla fattoria dei Whitfield, ma
non temevo di incontrare Matthew sul mio cammino: sapevo già che prefe-
riva tagliare attraverso i campi.
L'estate era al culmine: gli steli di mirtilli erano carichi di frutti; cammi-
navo spedita, fermandomi di tanto in tanto per cogliere una bacca matura e
metterla in bocca. Erano deliziosi, avevano un sapore intenso che ai frutti
di bosco acquistati in città mancava. L'umore mi migliorava a ogni passo
che mi allontanava da casa Latimer. Magari potevo lasciare un messaggio
a Brian, telefonargli da Arkham, all'ospedale. Se era di servizio poteva for-
se liberarsi per pranzo, così avremmo mangiato un boccone insieme.
Sentii una voce spensierata e familiare: «Sara!»
L'allegria mi abbandonò di colpo, ma continuai a camminare di buon
passo. Tibby attraversò il campo per raggiungermi sulla strada: sembrava
una dodicenne in un paio di vecchi jeans scoloriti e una camicia da uomo
con le maniche tagliate, decisamente di una taglia troppo piccola per lei.
«Ciao, Tibby, adesso non posso fermarmi a parlare, devo prendere un
autobus. Vado ad Arkham per tutto il giorno, e può darsi che non sia di ri-
torno prima di domani.»
Gli occhi le brillarono per un attimo. Replicò: «Non puoi farlo, lo sai
bene. C'è la luna piena. Hai dimenticato cosa c'è stasera?»
Sbuffai insofferente. Non volevo affrontare di nuovo il discorso. Risposi
quindi: «No, non l'ho dimenticato. È proprio per quello che me ne vado.
Senti, Tibby, Matthew deve avertene parlato, l'ho visto venire da te. E tutto
tuo, ti auguro ogni gioia. Tib, fa' la brava, lasciami passare e lasciami
prendere l'autobus».
Mormorò lentamente: «Sai bene che non vai da nessuna parte, Sara».
«Tibby, non voglio sembrarti antipatica, ma pensi veramente di poter-
melo impedire?»
«Preferirei non farlo», rispose, con mia sorpresa. «Se dipendesse da me
ti lascerei andare una volta per tutte. Ma Matthew vuole che tu rimanga, e
farò il possibile perché il suo desiderio venga esaudito.»
Ciò che fece dopo mi sbalordì. Si girò ed emise un lungo fischio stridu-
lo. Per un attimo mi chiesi se stava chiamando i rinforzi, ma non accadde
nulla, a parte uno sbattere d'ali proveniente dalla siepe. Un uccello nero
planò sulla strada davanti a noi, poi saltò sulla spalla di Tibby e rimase lì
appollaiato, gracchiando: «Fa' la brava! Fa' la brava!»
«Cos'è quel coso, Tibby?»
«Una taccola», si limitò a rispondere. «Le ho insegnato io a parlare. Do-
vresti saperlo, tu hai Zenzero... anzi, adesso lo chiami Barnabas, vero?
Senti, Sara, non obbligarmi a farlo. Non serve a niente. Sai di doverti pie-
gare al volere di Matthew, proprio come me, finché non sarai abbastanza
forte da sfidarlo, e per il momento non lo sei. Non costringermi, Sara, te ne
prego. Mi sei simpatica.»
«Anche tu mi eri simpatica», commentai freddamente, «ma stai metten-
do a dura prova la nostra amicizia.»
L'uccello gracidò: «Torna indietro! Torna indietro!» Dopo un lungo fi-
schio acuto continuò: «Luna piena! Luna piena! Fa' la brava!»
«Ammirerò il tuo corvo un'altra volta, Tibby. Non voglio perdere l'auto-
bus.» Mi avviai. Poiché era davanti a me, decisi di schivarla passandole
accanto.
Inclinò la testa di lato e sussurrò qualche parola all'uccello. Anche se
parlò distintamente non capii nulla, come se si fosse trattato di una lingua
straniera. Decisi di non perdere altro tempo e ripresi a camminare.
Non so spiegare quello che accadde dopo. Gli occhi malvagi del volatile
sembravano calamitare i miei e, quando ripresi il cammino, scoprii che
stavo ancora dirigendomi verso Tibby, che mi sbarrava la strada. Cercai di
evitarla e, che fosse stata lei a spostarsi o io a cambiare direzione senza vo-
lere, la trovai ancora davanti a me. Deviai di nuovo, ma ancora una volta
Tibby e quell'uccellaccio nero mi tagliavano la strada, e non avrei potuto
proseguire senza travolgerli.
I suoi occhi azzurri si fermarono sui miei, quasi con compassione, e dis-
se: «Ti avevo avvisato che non avrei potuto lasciarti andare, Sara. Prova a
cambiare direzione».
«Devo prendere quell'autobus.»
«No, non ci andrai, lo sai bene», ripeté.
Penso che le nostre manovre al centro della strada siano durate un bel
po'. Tibby non mi toccava, restava immobile al suo posto, ma quando cer-
cavo di superarla me la trovavo invariabilmente davanti. Infine udii il bor-
bottio di un motore vecchio e ansimante: passò in cima alla collina e ci su-
però sollevando una nuvola di polvere. Tibby fischiò e la taccola si solle-
vò, volteggiò brevemente e si rifugiò nella siepe. Scoprii che riuscivo di
nuovo a muovermi liberamente.
«Adesso va' pure dove ti pare», disse con aria indifferente Tibby. «L'au-
tobus se n'è andato, e non c'è altro modo per uscire dal paese.»
«Non mi dimenticherò di quello che mi hai fatto, Tibby.»
«Spero proprio di no», replicò. «Oh, Sara, perché arrabbiarsi? Sai perché
ho dovuto farlo. Ti avevo avvisato che non avrei preso le tue difese con
Matthew.»
Non avevo nient'altro da dire: mi voltai e mi avviai verso casa. Avrei vo-
luto scoppiare in lacrime di frustrazione e terrore. Uno strano motivo mi
indusse a trattenermi: sapevo che Tibby avrebbe cercato di consolarmi e
che, così, facendo, sarebbe stata sincera. Non avrei potuto sopportarlo.
Tornai quindi a casa e rimasi seduta immobile nella fredda cucina. Mi
sentivo come un topo in trappola. Ero stata fiera di me per avere vinto il
primo round con Matthew, ma Tibby aveva sconfitto me con estrema faci-
lità. Non ero certa di quale sarebbe stata la loro prossima mossa: difficil-
mente potevano entrare in casa, se avessi chiuso tutte le porte a chiave, per
trascinarmi di peso all'Esbat; anche se l'avessero fatto, avrei potuto distur-
bare la loro cerimonia cantando Onward Christian Soldiers o un'altra can-
zone di chiesa e squarciagola.
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